MARCELLO AITIANI Pittore, musicista, saggista. Accademico dell’Accademia delle Arti del Disegno di Firenze
Per un mondo in cui credere
Tra le varie correnti di pensiero che hanno agitato il Novecento, vorrei rapidissimamente ricordarne una, che ha cominciato a fermentare a partire dalla fine degli anni ’50 del secolo scorso, quando in alcuni settori dei mondi artistici si era affermata la convinzione che per difendere l’arte dalla sua totale mercificazione si dovessero assumere posizioni di anti-estetica. Il movimento Fluxus promosso negli Stati Uniti da Georg Maciunas è stato il motore di una simile, radicale contestazione del sistema, costituito da artista-critico-galleria-museo-teatro-sale da concerto. Un flusso sostenuto nei settori della musica come delle arti, visive e performative, da molti celebri protagonisti, da John Cage ad Allan Kaprow, da Dick Higgins a La Monte Young e Yoko Ono (legata come noto a John Lennon), per citarne solo alcuni, che si è via via esteso anche all’Europa e di molto allargato.
Nel corso degli anni questo modello dell’anti-arte si è sedimentato nella coscienza narcotizzata dei più e per inerzia continua a produrre “eventi” d’arte contemporanea, performance, happening, gesti artistici. Vuote ripetizioni, restyling – come aveva scritto Umberto Eco – che non apportano trasformazioni di fondo alle non- opere di più di mezzo secolo fa, nate in un contesto ormai passato e con differenti intendimenti. Riprese stereotipate per un ristrettissimo pubblico del mondo culturale “alto”, per così dire, ma esso stesso bloccato, cinico o depresso, che si ripercuotono – ormai svuotati del senso originario – anche nei gesti, nelle mode, nei prodotti dell’industria culturale popolare di massa. I due mondi dell’“alto” e del pop (pur asimmetrici) ormai si sovrappongono, s’incrociano, connessi da un confine che li distingue, ma anche li unisce e ibrida, talvolta fino a confondersi. Così la caduta della contemporaneità in un fondo senza luce è sempre più rapida.
Come arginarla? Penso non sia possibile, né auspicabile, tornare all’antica idea di una cultura d’élite, di un’arte alta, aristocratica e puramente teorico-contemplativa escludente forme pop, delle industrie culturali, ormai seguite dalla maggior parte delle persone.
Proprio la grande oscurità che si sta attraversando credo stia facendo nascere energie reattive, che hanno seguito e seguono vie divergenti dai modelli più finanziati e corteggiati dagli obsolescenti circuiti ufficiali.
Altre luci si scorgono; in vari contesti intelligenze consapevoli tornano a de-siderare, ad anelare bagliori stellari: nelle azioni di tanti giovani che operano gratuitamente per gli altri; nelle ricerche scientifiche e tecnologiche (quando non risucchiate anch’esse nell’assolutizzazione del business e del potere); in forme meno conclamate d’arte, poesia, musica. Energie varie che cercano di superare lo stallo e che con diverse gradazioni agiscono: “da sopra e da sotto”, attraverso una cultura “alta” (per quanto ormai rara e dunque maggiormente preziosa) e da una pop, pure importante perché in questo tempo è la più vicina ai più. L’azione a tenaglia di queste due forze potrebbe ricondurci a una certa elevatezza, se sapessero in qualche modo collaborare pescando in ciò che le accomuna, oltre le differenze
Anche Giancarlo Cardini, amico e collega di iniziative d’arte, pensava così.
Compositore d’avanguardia ma anche di musiche “tradizionali”, sinfoniche, cameristiche, teatrali; collaboratore di musicisti delle avanguardie internazionali come John Cage, Morton Feldman o Sylvano Bussotti, è sempre stato in continua ricerca della bellezza estetica nelle sonorità. Cardini più volte mi ha espresso la sua idea, che anche nella musica cosiddetta leggera si possono trovano cose belle. Infatti, ha rivisitato creativamente e interpretato al pianoforte cantautori degli anni ’60 quali Gino Paoli, Domenico Modugno, Luigi Tenco; e di Umberto Bindi ben quindici canzoni.
Sì, penso che in questo tempo lacerato, diviso, intriso di solitudini, dove le relazioni tra le persone sono spesso funzionali o lacerate, le due linee, anche da diversi livelli, possono talvolta camminare nella comune direzione di una rinascita del sentire, di una vita significativa, del senso nobile dell’umano e dell’armonia.
Un’armonia niente affatto sdolcinata e inconsapevole del male presente nella realtà; armonia che reca in sé significati che la radice sanscrita AR racchiude: aderire, unire, disporre. Una radice da cui derivano anche i termini latini e greci artem (arte), aretè (virtù / eroismo / valore), árthron (articolazione), arithmòs (aritmetica / numero / accordo; proporzioni di parti, verso, ritmo…). L’armonia insomma è un’unità articolata, è un insieme di parti diverse (lo sottolineo) che trovano un loro accordo, di note musicali e voci ma anche di parole disposte bene nel verso. Una frase ben ritmata; una proporzionata disposizione di arredi nelle stanze, di parti negli edifici, nella città, nella società; finalmente, un buon accordo tra persone.
Non so se Giancarlo Lucariello sia stato del tutto consapevole di queste cose, quando si è sentito spinto a realizzare questa sua recente produzione. Ciò che viene dal profondo è una luce misteriosa, e ognuno ha la sua. Di certo è stato guidato dal talento che lo abita, per dirla evangelicamente: una ricerca d’armonia che da sempre, quasi caparbiamente e anacronisticamente, coglie nella tradizione dell’opera lirica italiana. Così, insieme a musicisti e autori dei testi (tra cui lui stesso), ha travasato riverberi di quelle armonie e melodie in un racconto scandito in stazioni / romanze. Canzoni legate a sentimenti primari che rendono umano ogni essere umano. Non avendo il successo commerciale come meta di fondo, ha coordinato una équipe: autori delle musiche e dei testi, cantante, strumentisti e tecnici – ognuno nelle proprie specifiche competenze di grande professionalità – per dire di un mondo in cui credere, diverso dalle mode della musica che continuamente piattaforme, radio e supermercati diffondono.
Nessun confronto, ovviamente, con le complesse creazioni della lirica e con la temperie sociale e culturale della loro epoca; piuttosto, come è scritto nella presentazione di questo lavoro, «frammenti di vita, piccoli grandi sogni, allo stesso tempo semplici e ambiziosi nell’evocare una lunga tradizione, ma ponendosi intenzionalmente a lato di essa. Musica di oggi non per l’oggi».
Musica e testi comunque incarnati in forme, sonorità, tecniche e tecnologie di un pop alquanto diverso da quello prevalente, ma di questo tempo.
Tempo che a tutti chiede, e in tutti i campi, un altro oggi.